Titolo: Cybernetic Serendipity: The Computer and the Arts
Autore: Vari
A cura di: Jasia Reichardt
Edizione: Studio International Special Issue
Anno: 1968
Pagine: 106
Cybernetic Serendipity è il titolo di una mostra che altrove ho già indicato come un evento cult per coloro interessati all’uso artistico della tecnologia. Nel 1968 l’artista e curatrice Jasia Reichardt ideò il progetto per una grande mostra il cui scopo era mostrare in che maniera l’uomo poteva utilizzare il computer e le nuove tecnologie per estendere la propria creatività.
L’eccezionalità di questo evento consiste nel fatto che fino ad allora il matrimonio tra arte e tecnologia era stato celebrato esclusivamente all’interno dei centri di ricerca, studio ed istituti altamente tecnologici, dove la collaborazione tra artisti e ingegneri si era svolta nell’ottica della sperimentazione.
… Cybernetic Serendipity, dealing broadly with the demonstration of how man can use the computer and new technology to extend his creativity and inventiveness.
L’apertura al grande pubblico di Cybernetic Serendipity, allora, non poteva che essere salutato come un grande evento, di cui ancora oggi si preserva un forte ricordo.
La mostra era stata strutturata senza alcun discrimine rispetto alle arti rappresentate: musica, arti visive, video, immagini statiche, letteratura, qualsiasi disciplina artistica che si potesse affiancare alla parola computer aveva ogni diritto di essere rappresentata all’interno dell’evento curato da Jasia Reichardt.
Inglese ma di origine polacca, la Reichardt progettò un evento della durata di quasi tre mesi, dal 2 Agosto al 20 Ottobre 1968, presso l’Institute of Contemporary Arts di Londra, per il quale era stata nominata Assistente alla Direzione.
Benché la mia data anagrafica non mi abbia permesso di essere presente alla mostra, la qualità dei progetti presentati e i nomi delle personalità coinvolte permettono di intuire che Cybernetic Serendipity era stato ideato fin dall’inizio come un grande evento. Per questo motivo Jasia Reichardt oltre all’allestimento ideò e curò la pubblicazione di due resoconti: un’edizione di musiche su disco e un libro.
All’interno di Cybernetic Serendipity la musica occupava una posizione importante, anche in virtù del fatto che la computer music, in quel 1968, si presentava come un campo di ricerca oramai consolidato, con alle spalle quasi venti anni di sperimentazioni e di lavori di vario genere, in termini di software musicali sviluppati e di opere composte.
La sezione musicale del progetto fu curata da Peter Schmidt, artista tedesco di base a Londra, pioniere nell’uso della multimedialità e promotore, nel 1967, di una performance intitolata A painter’s use of sound.
Dell’edizione su disco ho già scritto a Giugno 2014 in un articolo che potete leggere seguendo questo link, dove è possibile ascoltare e scaricare i brani della raccolta. Qui, invece, voglio scrivere della pubblicazione cartacea che accompagna la mostra di Londra, un volume di oltre 100 pagine, curato da Jasia Reichardt e pubblicato come numero speciale della rivista d’arte Studio International.
Il volume raccoglie interventi di personalità di spicco nell’ambito della computer music. Si tratta per lo più di compositori, pionieri nell’uso dello strumento informatico, come Lejaren Hiller, Herbert Brün, Peter Zinovieff e James Tenney, ma non mancano teorici e tecnici come Joseph Schillinger, John Pierce e il matematico O’Breine. Infine vi troviamo anche un intervento di John Cage (che in quei mesi stava lavorando alla realizzazione di HPSCHD) e Karlheinz Stockhausen, benché quest’ultimo non avesse mai fatto uso del computer (la prima volta di Stockhausen con il computer sarà con il sistema UPIC di Iannis Xenkis).
Proprio l’articolo di Stockhausen mostra l’intento della curatrice di abbracciare questioni molto più ampie della semplice applicazione pratica della tecnologia digitale in musica. In effetti lo scritto di Stockhausen fornisce lo spunto per riflettere sul rapporto tra l’approccio compositivo tradizionale e certe metodologie introdotte nel pensiero musicale con gli strumenti informatici. Riflessioni molto simili sono quelle stimolate dall’articolo di apertura della sezione musicale, scritto da Joseph Schillinger, autore di due celebri pubblicazioni The Schillinger System of Musical Composition (1946) e The Mathematical Basis of Arts (1966), con le quali mostrava – in anticipo sugli esperimenti pionieristici di computer music degli anni Cinquanta – in che maniera la matematica potesse trovare una valida applicazione nel pensiero creativo musicale.
A proposito di pionierismo, benché sia assente un articolo del “padre” della computer music, Max Mathews, la curatrice Jasia Reichardt ha pensato bene di accogliere uno scritto di John Pierce, che fu collaboratore e ancor prima fautore della ricerca sull’informatica musicale ai laboratori Bell del New Jersey, dove si svilupparono i primi software della famiglia Music N.
Se lo scritto di Pierce si presenta piuttosto tecnico e di presentazione dello strumento digitale, molto più interessanti, sul piano musicale, sono gli articoli di alcuni compositori protagonisti della prima rivoluzione digitale: Lejaren Hiller, Herbert Brün e James Tenney, i quali espongono i risultati delle loro attività ,soffermandosi sugli aspetti compositivi dei loro lavori di computer music.
Di tutt’altro genere il contenuto degli articoli di Gerald Strang, Peter Zinovieff e John Cage; i quali, pur avendo esperienza sul piano compositivo, preferiscono un approccio tecnico ed analitico all’uso dello strumento digitale in musica – i primi due – e nell’ambito dell’arte visiva – John Cage.
Chiude la sessione musicale, anch’egli con un articolo piuttosto tecnico, Thomas Hay O’Beirne, matematico scozzese, tra i pionieri della computer music in Gran Bretagna, che ideò un software denominato Orpheus.
Per coloro, che come me, non hanno avuto l’opportunità di assistere all’evento, possiamo accontentarci della versione digitale del volume curato da Jasia Reichardt e che è possibile reperire attraverso questo link.
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